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 G i o r g i o   R i g o n

    Tra le mille riflessioni formulate sulle moderne teorie estetiche se ne registra una che, per la sua incisività, sembra non ammettere repliche:
     "L’Arte contemporanea consiste nel sottrarre".
     In realtà in quel poco da vedere che c'è in un frammento ingigantito risiede una poetica antica che, prima dell’avvento di talune avanguardie, veniva sbrigativamente liquidata come una non poetica dell’uomo primitivo. Emblematiche, sotto questo profilo, le selvagge sembianze delle “Démoiselles d’Avignon” di Picasso e i tagli sulla tela di Fontana.
     Se chiedessimo ad un pittore di oggi perchè nel rappresentare qualcosa sente l’esigenza di sottrarre particolari, di semplificare le linee, a dispetto della fedeltà del dato visivo, egli potrebbe rispondere: “Stiamo ancora affrancandoci dalla servitù di millenni in cui agli artisti veniva richiesto di produrre pitture che sembrassero vere."
     Naturalmente il discorso non ci convince e ci verrebbe istintivo replicare: “Ma non è che, con la scusa di questo affrancamento vi siete ridotti a non saper più dipingere con la calligrafica maestria dei maestri del passato?”.
     Teniamo per noi questo dubbio poiché, se lo esprimessimo, ci sentiremmo rispondere: “Tu non capisci nulla dell’Arte! Puoi pensare ciò che vuoi degli artisti contemporanei, ma almeno accorda loro tanta fiducia da presumerli capaci di disegnare correttamente!”.
     Questo immaginario colloquio rispecchia, con sufficiente aderenza, il tema principale del rapporto dialettico tra artisti (ivi inclusi i fotografi) e il pubblico: “la Definitezza e l’Apertura”: - l’autore infatti pone capo ad un oggetto compiuto e definito secondo un’intenzione ben precisa, intendendo che i fruitori la interpretino così come egli stesso lo ha pensato e voluto (figg. 3 e 4); - l’oggetto, invece, per onesto che sia l’impegno di fedeltà al dato visivo, viene osservato da una pluralità di osservatori ciascuno dei quali porterà, nell’atto della fruizione, le proprie caratteristiche psicologiche e fisiologiche, la propria formazione ambientale. Ne consegue che quanto più l’autore si allontanerà dalla fedeltà al dato visivo, sot-traendo elementi di definitezza, tanto più allargherà il ventaglio delle possibili interpretazioni e dei dilemmi che ogni singolo fruitore risolverà, in modo diverso, in base alla rispettiva conoscenza empirica della realtà.


    Se nel corso della storia umana il vero ruolo delle arti, quale ora noi andiamo gra-dualmente a riscoprire, fosse rimasto ben distinto da quello socialmente utile e necessario all’informazione, ora non dovremmo ricorrere alla locuzione “Opera Aperta” per chiarire un concetto che, invece, dovrebbe essere naturalmente implicito nella funzione dell’arte.
     Anche qui giova ricondurci alle origini delle esperienze artistiche dell’uomo: sono in-fatti i graffiti trovati nelle caverne, le misteriose immagini di certi sepolcri e i fascinosi oggetti sacrali che testimoniano, con la loro ambiguità e indeterminatezza, l’esigenza spirituale che ogni opera d’arte contenga un certo grado di apertura. Si dirà che questa aspirazione dell’arte alla vaghezza non può sussistere per lo specifico della fotografia, dal momento che si porrebbe in antitesi con la logica evoluzione dei suoi mezzi tecnici che muove nella direzione opposta: dalla vaghezza delle prime immagini al di Niepce si è giunti alla moderna risoluzione di non so quante linee per millimetro o di migliaia di pixel per pollice (se ragioniamo in ambiente digitale).
     Ma forse che noi ci dichiariamo pienamente appagati della straordinaria qualità dei nostri obiettivi, delle nostre emulsioni, delle perfette rese cromatiche? Sul piano tecnico-scientifico certamente sì, sul piano espressivo-lirico confessiamo pure che i perfezionamenti tecnici congelano spesso le nostre visioni tanto che sentiamo la necessità di mistificare ogni cosa ricorrendo a manipolazioni “Polaroid” a trasferimenti di emulsioni su supporti rustici, a fotocopiature con retini che, comunque, sottraggono definitezza al dato visivo originario sostituendovi textures dall’effetto sovente imprevedibile e casuale.
     In definitiva l’aspirazione all’Opera Aperta, così prepotente negli artisti dell’informale, da Kandinskij a Pollock, da Fontana a Rothko, coinvolge anche noi fotografi nel nostro vedere creativo.
     Il cerchio delle divagazioni, iniziate con il dibattito al Congresso di Perugia (1996), lo chiudiamo tornando al punto iniziale: “la Creatività”. Nel corso del citato dibattito avevamo iniziato col sostenere che "la Creatività si acquisisce attraverso un processo inconscio, man mano che si affina la nostra sensibilità estetica con il continuo e ben controllato esercizio della visione". Oggi, dopo quasi un anno di riflessioni, possiamo affermare che le poetiche dell’Opera Aperta, dell’Oggetto Trovato, dell’Arbitrarietà e della Trasgressione formale possono stimolare la Creatività, però questa la dobbiamo rendere dipendente da quella stessa sensibilità estetica che guida gli artisti contemporanei quando, ad esempio, "esercitano la visione" sui semplici frammenti della realtà o sui momenti di vita quotidiana.
     In questo breve percorso non abbiamo inventato nulla, non abbiamo liberato la fan-tasia in modo arbitrario, "non abbiamo lasciato la nostra creatività in balia di sé stessa" , bensì abbiamo pilotato la nostra visione avvalendoci di alcune teorie estetiche verificate da esperienze dell’Avanguardia, fino a sentirci eredi ed epigoni dei grandi artisti di un passato che è ancora prossimo.

Bressanone, 12 dicembre 1996