|
fig. 1, La ninfa Eco ed i narcisi. |
La mitologia ordinatrice della realtà
La vita, la storia e tutto ciò che ci attornia appare come un turbinio d’immagini senza senso che l’uomo ha sentito la necessità di spiegare e di ordinare ai fini della conoscenza della propria realtà. Ciò che l’uomo non può spiegarsi su base scientifica lo deve addebitare ad un ordine sovrannaturale, affidandosi ad una teogonia che, oltre a rivelargli l’origine e la discendenza degli dei, consenta di creare dei miti i quali, in qualche modo, facciano conoscere la propria realtà e ordinino l’andamento dell’esistenza, accettando quel tanto di paradossale dovuto al potere od al capriccio delle divinità. Il complesso mitologico è il bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere le contraddizioni della natura, è spiegazione dei riti, degli atti formali che corrispondono ad esigenze di una civiltà, esso costituisce la struttura delle credenze di un gruppo, di un etnos. Ciascun mito rivela, esprimendole in forma allegorica, profonde verità esistenziali ed insegnamenti morali. All’origine d’ogni mito c’è un evento naturale o un fenomeno fisico che, reiterandosi nel tempo, viene recepito dalla coscienza umana come governato da una legge, talora imperscrutabile, che assume l’assolutezza della “verità.
Eco e Narciso (1).
Il riflesso che uno specchio d’acqua rimanda, in una direzione angolare simmetrica a quella d’incidenza, è all’origine del mito di Narciso così come, all’origine del mito di Eco, c’è l’onda sonora che, per la stessa legge, “rimbalza” nell’aere tra due catene di montagne.
Le due figure mitologiche sono, perciò, abbinate in un unico racconto, sia per la comune fenomenologia naturale, sia per le singolari caratteristiche antropologiche e caratteriali dei personaggi che la tradizione vuole concatenati verso un destino di disfacimento. Nella concezione d’una natura animata, partecipe di un tutto che si trasforma, Ovidio (2). raccoglie nel suo archivio, fremente di storie trascorse, anche quella di Narciso, che si conclude con la metamorfosi della creatura mitica in un fiore.
|
|
A segnare il destino di Narciso sta il responso dell’indovino Tiresia che, alla domanda della ninfa Liriope se il proprio neonato Narciso potrà giungere ad una longa senectus, risponde si non noveris, cioè, fino a quando non conoscerà sé stesso.
Creatura altera, orgogliosa, disdegnosa d’ogni approccio amoroso, simbolo d’un atteggiamento dell’Io che sa amare esclusivamente sé stesso, Narciso respinge le profferte d’amore di Eco (3) esclamando: ch’io muoia prima che sia di te, cui la ninfa, condannata a ripetere solo le ultime parole pronunciate da altri, fa da eco: ch’io sia di te, concorrendo così, anche da parte sua, all’epilogo vaticinato da Tiresia.
Affinché una morte, ancorché mitologica, trovi uno sviluppo negli eventi umani e della natura, Narciso prende coscienza del proprio sembiante attraverso il riflesso di uno specchio d’acqua, se ne innamora e si lascia morire.
La presa di coscienza di noi stessi
I personaggi mitologici ci raccontano di due fenomeni del riflesso (il primo dell’immagine speculare, il secondo di parole, terminali di un discorso, rimandate dall’eco); riflessi entrambi ingannevoli che, nella estremizzazione mitologica, portano all’autodistruzione ed, infine, alla metamorfosi.
Nella realtà dell’umana contingenza, tra le prime esperienze visuali di cui siamo coscienti c’è l’immagine del nostro sembiante riflesso dallo specchio, un investimento pulsionale che ci pone nelle stesse condizioni di Narciso. In quel momento, per alcuni fugace per altri ricorrente, sappiamo amare esclusivamente noi stessi e ci escludiamo totalmente dal resto del mondo. Fugace ma ripetuto quotidianamente, e ingannevole poiché ciò che è riflesso, si pone come un’astrazione dalla realtà che ci appare cambiata di posto, in veste virtuale, deformata, con i lati invertiti, come un simulacro simmetrico, qualità che, per prime, suggeriscono all’artista come lo “straniamento” possa essere assunto a categoria estetica. All’origine d’ogni impulso ad idealizzare la realtà c’è, quindi, un riflesso. Poi c’è il riflesso del riflesso che è la fotografia (4). Nel caso specifico, di noi che ci osserviamo allo specchio, la fotografia è la restituzione del sembiante attraverso il quale tutti gli altri ci riconoscono ma che a noi rimane abnorme ed estraneo.
Lo specchio, quindi, sembra mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla propria natura. Presa conoscenza del nostro sembiante, lo specchio ci accompagnerà per tutta la vita, dalla prima riflessione alla quotidiana constatazione della nostra lenta, fatale metamorfosi, fino al disfacimento.
1. Il sembiante, lo spiazzamento percettivo e l’identità sospesa. (prima sperimentazione) (5)..
Se noi disponiamo d’un ritratto fotografico perfettamente frontale e tale che una ideale linea verticale attraversi esattamente al centro fronte, naso, labbra e collo (figg. 2, 3 e 4) osserveremo che l’immagine speculare della parte sinistra del volto dà vita ad una sembianza virtuale, dai connotati espressivi alquanto diversi dalla vera espressione del soggetto. |
|
| | | fig. 2 | fig. 3 | fig. 4 |
Fig. 4 |
Ripetendo la prova nei confronti della parte destra, creeremo un’espressione ancora diversa. Gli effetti di questo taglio mediano, ben conosciuti dagli artisti e spesso verificati, in corso d’opera, nella realizzazione pittorica del ritratto, produce un vero e proprio spiazzamento percettivo e mistifica la vera espressione del soggetto, determinando la sensazione di un’identità sospesa.
Se poi, a questa fase propedeutica della sperimentazione, facciamo seguire la realizzazione su stampa fotografica di tali ritratti giocati sul taglio mediano e, quindi, sulla simmetria, l’effetto sarà ancora più spiazzante; ci troveremo di fronte ad una serie di sembianze improbabili, ingannevoli sull’identità del soggetto e sul piano della rappresentazione della realtà, tanto da chiederci: ma qual’è la vera Luisella? (tale il nome della giovane modella che, nella fig. 4, finalmente, ci appare nella sua vera sembianza, senza manipolazioni e con l’accattivante, genuina espressione). |
2. L’asimmetria – una categoria estetica.
La semplice esperienza sopra descritta pone in chiara evidenza come l’espressività d’un volto e, di conseguenza, il suo potere comunicativo deriva soprattutto dalla asimmetria dei lineamenti ed, in particolare, degli occhi. È noto che la tendenza dell'occhio a deviare leggermente verso l'esterno rispetto al suo asse normale, tradizionalmente, conferisce una nota in più al fascino femminile (figg. 5 e 6). Mi piacerebbe pensare che, come la maggior parte delle fantasie umane, anche lo strabismo di Venere trovi un riscontro nella mitologia più antica, ma forse non è così: la locuzione potrebbe essere stata coniata a seguito della contemplazione del volto di Venere dipinto da Botticelli (6).
|
fig. 5 | fig. 6 |
La cattura fotografica di sguardi femminili impreziositi dallo strabismo di Venere mi ha sempre coinvolto emotivamente.
Ho sempre cercato di ottenerla in modo furtivo, nella casualità degli incontri sporadici lungo le strade, piuttosto che nella stereotipia dell’atteggiamento in posa, in cui lo sguardo è controllato; poche volte ci sono riuscito (fig. 7), altre volte ho dovuto accettare il coinvolgimento del soggetto (fig. 8 e 9). |
fig. 7 | fig. 8 | fig. 9 | fig. 10 |
Se ci riferiamo all’arte figurativa, ricordo che, tra i principi generali del Neoplasticismo, leggiamo: … l’equilibrio è raggiunto attraverso i rapporti di proporzione che generano il ritmo vivente. Sarà esclusa ogni simmetria. (7). Asimmetria, quindi, come espressività, carattere, bellezza (fig. 10).
3. La mimica – un codice individuale – il riflesso della personalità (seconda sperimentazione).
"La mimica è lo strumento più importante della comunicazione muta di ogni persona. Attraverso la mimica si esprimono tutti i sentimenti: dai più intensi, come la paura, il dolore, l’emozione, la gioia, ai più delicati, come la tenerezza, il desiderio, l’amore. La mimica può essere facciale: sguardi, ammiccamenti, sorrisi, smorfie, oppure gestuale, secondo codici universalmente riconosciuti, può essere istintiva, studiata, autocontrollata; in ogni modo, la mimica supporta, incrementa o sostituisce il potere della comunicazione verbale. Ogni persona possiede un proprio repertorio di maschere mimiche, dal quale attinge, consapevolmente o inconsapevolmente, a seguito di un qualsiasi stimolo esterno." (8).
Nel corso delle mie riflessioni sul ritratto, la ricerca fotografica mi porta spesso in strada, ove posso osservare la gente, abbandonarmi all’emozione di osservare, non veduto, le sembianze delle persone che mi affascinano di più.
Una giovane ambulante al mercato mi ha attratto per la vivacità e la mutevolezza della mimica facciale. Il lavoro di ripresa ha avuto tre momenti: Primo momento: il soggetto era assolutamente ignaro della mia presenza, dai ritratti carpiti così furtivamente appare il carattere vivace e socievole palesato da una mimica istintiva, spontanea, ricca d’espressioni bizzarre, assunta in funzione della necessità di accattivarsi la simpatia d’una clientela occasionale (figg. 11, 12, 13, 14 e 15).
|
fig. 11 | fig. 12 | fig. 13 | fig. 14 | fig. 15 |
Secondo momento: improvvisamente, la ragazza si accorge della mia presenza, si rende conto che le ho carpito alcune sembianze a sua insaputa, istintivamente assume, per un attimo, un atteggiamento, se non di diffidenza, certamente d’incertezza e di perplessità(fig. 16), come per chiedersi: ed ora come reagisco? Mi conviene stare al gioco?
La consapevolezza di essere attraente e l’abitudine a comunicare con grande disinvoltura la convincono a stare al gioco ed a continuare il colloquio con la clientela.
| fig. 16 |
Terzo momento: fingendo di non accorgersi della presenza del fotografo, la ragazza assoggetta la propria mimica ad un maggiore controllo, pure continuando la propria performance in modo apparentemente naturale (fig. 17, 18, 19 e 20). |
fig. 17 | fig. 18 | fig. 19 | fig. 20 |
Il repertorio delle maschere mimiche del primo momento non differisce molto da quello del terzo, tuttavia, in quest’ultimo, gestualità e mimica facciale appaiono più studiate, più dignitose. Il processo d’empatia tra fotografo e soggetto, nel passaggio dalla inconsapevolezza alla consapevolezza, è avvenuto con facilità, in virtù, soprattutto, del carattere espansivo e trasparente della persona.
4. Le molteplici forme del vero nel ritratto fotografico.
L’approccio fotografico con il ritratto è iniziato nello stesso ambiente dell’arte figurativa (l’Atelier del pittore), non solo come naturale evoluzione d’un sistema figurativo ma, soprattutto, perché le iniziali, ingombranti attrezzature di ripresa ed i tempi lunghi d'esposizione comportavano sedute prolungate e staticità delle pose, analoghe a quelle delle opere pittoriche.
Oggi possiamo affermare, schematizzando, che l’approccio fotografico con il soggetto da ritrarre può avvenire in tre modi o procedimenti differenti, attraverso: - La predisposizione del soggetto e l’organizzazione dell’ambiente, teatro della ripresa. In questo tipo di fotografia, la sala di posa è erede del classico atelier del pittore; ma lo è anche l’ambiente esterno in cui ci si appresta a fotografare e che richiede lo stesso studio di predisposizione, affinché il soggetto principale interagisca con ciò che lo circonda.
- La cattura, in tempi rapidi, con procedimento furtivo, casuale o istintivo d’un soggetto, per lo più inconsapevole, resa possibile dall’evoluzione della tecnologia, sia tradizionale sia digitale.
- L’organizzazione e la configurazione post ripresa d’una composizione fotografica da parte dell’autore, intesa a conferire al prodotto figurativo finale valori estetici e/o concettuali che si aggiungono o, addirittura, si sostituiscono a quelli della ripresa iniziale.
Per quanto riguarda la ritrattistica fotografica, è evidente che tutti e tre gli approcci descritti nel capitolo precedente danno vita ad iconografie fedeli al vero, tuttavia, la percezione del reale (identità del soggetto) differisce dall’una all’altra: -
nel primo caso (fig. 21), il soggetto trasmette una visione di sé attraverso un atteggiamento, una gestualità, da lui stesso scelti, sotto la cui maschera si studia di apparire;
- nel secondo (fig.22), caso tipico del fotogiornalismo e del reportage, l’immagine fotografica è dotata del più alto quoziente di veridicità e di credibilità, entro certi limiti però, poiché l’intento ideologico del fotografo fornisce una visione personale dell’evento, attraverso la scelta del momento dinamico e dell’inquadratura, in questo caso è il fotografo che scopre e rivela caratteri particolari che il soggetto spesso tende a nascondere;
- nel terzo (fig. 23) emerge l’aspirazione ad inserire la produzione fotografica nel dibattito delle altre arti figurative, fino ad emulare o a sfidare le performance degli artisti dediti alle installazioni ed alle ambientazioni di natura concettuale, nel caso specifico è il fotografo che conferisce al soggetto caratteristiche formali o psicologiche secondo il proprio arbitrio.
|
fig. 21 (Ritratto, Paul Nadar, 1905) | fig. 22 (Maria Callas, Agenzia Carrese) | fig. 23 (Percorso della memoria, 1990, Giorgio Rigon) |
5. Interpretare, conferire, attribuirsi un’identità.
I tre diversi approcci che la fotografia consente all’autore nei confronti del soggetto e, analogamente, al soggetto nei confronti dell’autore offrono ad entrambi la possibilità di entrare in un gioco ambiguo con l’identità. -
Nella fig. 24, August Sander interpreta e rivela l’identità di una contadina con molta semplicità. La donna posa, in atteggiamento di riposo molto composto che le è naturale, attenta ad apparire dignitosamente, offrendosi come specchio della condizione domestica e sociale che contraddistingue il suo ruolo. Sander era un grande maestro della fotografia che, con la stessa icasticità, amava interpretare e rivelare con limpidezza l’identità di ogni categoria di lavoratori ed artigiani, in virtù di una raffinata esperienza di empatia con i propri soggetti.
- La fotografia riprodotta nella fig. 25 ritrae una figura femminile ambientata in un salotto dei primi anni del ‘900. Il fotografo Erfurth asseconda il proprio soggetto nel suo desiderio di attribuirsi l’identità di una signora nobile o dell’alta borghesia del tempo. L’ambiente, il ricco vestito, il cappello, la piccolissima borsetta da sera, l’ombrellino sono scelti come puri elementi simbolici finalizzati a testimoniare il rango cui la signora aspira nell’alta società.
- La composizione fotografica complessa riprodotta nella fig. 26 ritrae il volto di Madre Teresa di Calcutta, da me colta di sorpresa in un incontro occasionale nel 1980. In un primo tempo intesi interpretare e rivelare l’identità di Madre Teresa con la stessa semplicità ed icasticità del ritratto di contadina di Sander; poi decisi di creare una vera e propria installazione celebrativa del mio soggetto: una santa donna piena di carità cristiana che ha dedicato l’intera vita ai malati ed ai diseredati, operando soprattutto attraverso l’operato delle proprie mani e con la preghiera. Le mani in primo piano con la corona del rosario, scelte come elemento simbolico e reiterate 12 volte conferiscono, rafforzandola, l’identità che volli attribuire al soggetto.
|
fig. 24 interpretare e rivelare un'identità. | fig. 25 attribuirsi un'identità. | fig. 26 conferire un'identità. |
“Interpretare, attribuirsi, conferire” , tre infiniti (il secondo riflessivo) utilizzati a conclusione di queste mie riflessioni.
I tre diversi approcci con la ritrattistica fotografica testimoniano come il comportamento individuale dei soggetti e degli autori sia determinato da convenzioni, condizioni sociali, mode.
Bressanone, maggio 2007
|