Il corpo svelato è una delle categorie più
proficue e prestigiose dell’espressione artistica che ha sempre infiammato i
dibattiti fra moralisti e cultori dell’arte, non tanto per semplice pruderie,
quanto per la chiara consapevolezza dell’instabilità del nudo come categoria di
produzione artistica, sovvertitrice dei tenui confini fra la legittimità
dell’opera d’arte e la semplice raffigurazione erotica.
La storia
della rappresentazione senza veli dimostra come la scelta di raffigurare il
corpo svestito sia sempre stata privilegiata, da parte di artisti e dei
committenti, sia per l’iconografia profana sia per quella sacra. La prima trae
ispirazione principalmente della mitologia antica, la seconda dai martiri e
dei Santi cristiani che, per vicende della loro esistenza o per tradizione,
possono essere visti nella loro nudità, a cominciare dalla passione di Cristo
fino a San Sebastiano, dalla Maddalena fino alla ricca angelologia.
È singolare come, pur nella castigata atmosfera
instaurata dalla morale cristiana, si ravvisi in ogni epoca il compiacimento
per la rappresentazione realistica od espressionistica del nudo, in particolare
dal Rinascimento in poi, e che le raffigurazioni nude del Salvatore, di certi
Santi e di tutte le grazie Angeliche siano sempre state oggetto di particolare
contemplazione e, addirittura, di ascesi mistica.
Al di
fuori dell’iconografia Sacra, sarebbe impossibile, in queste brevi note, anche
solo accennare a tutte le concezioni espressive ed ai ruoli del nudo che la
storia dell’Arte ha registrato; mi limito soltanto a considerare brevemente
quanto è avvenuto dall’età vittoriana ad oggi, periodo storico che coincide
proprio con quello della fotografia.
Nei primi decenni del XIX secolo, Il nudo,
pudicamente rarefatto o reso capriccioso dalle malizie dell’Arcadia, si afferma
come soggetto artistico autonomo, attraverso appropriazioni stilistiche, dal Rinascimento
veneziano e dal classicismo francese, e ribalta lo stereotipo d’una società
ancora erede del puritanesimo. Uno stereotipo che, nell’identificazione di
“vittoriano”, ci fa tuttora concepire la cultura inglese del XIX secolo come
dominata da un’affettata ed eccessiva castigatezza. In realtà, nella stessa
società vittoriana, si adombra una sotterranea, morbosa attività, varia, sperimentale,
abusiva, molto incline all’erotismo, nascosta magari da una sottile vena
d’ipocrisia, ma che si esprime attraverso una custodia clandestina e privata
del nudo fotografico.
Nella
cultura europea degli ultimi decenni del XIX secolo, un nuovo, decisivo impulso
alla raffigurazione aperta e pubblica del nudo è promosso dal revival della
tradizione neoclassica, grazie all’estrema flessibilità dell’ideale antico che
si presta a sostenere, oltre alle interpretazioni della mitologia e delle
scene sacre, anche nuove emergenti visioni della mascolinità e della
femminilità. Il prototipo del nuovo stile è “La sorgente” di Jngres: nudo
ineffabilmente casto poiché convoglia in pittura le qualità formali della
scultura: enfatizzazione delle linee e della superficie rispetto al colore ed
alla suggestione narrativa.
La
diffusione del nudo d’ispirazione classica, cui la tradizione offre autorità e
rilevanza, fu assolutamente determinante nella formazione del gusto del
pubblico, contribuendo a liberare il nudo dalla “conchiglia protettiva del
puritanesimo” fino a portarci al nudo moderno, urbano, definitivamente
affrancato dal ricorso alla leggenda ed all’uso della classicità.
Di
quest’ultima tendenza, cito due esempi: il primo lo individuo nella Scuola
Romana (Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli e Corrado Cagli) i cui nudi femminili
e maschili ci appaiono semplificati ed ambigui, con presenza di elementi
esoterici e psicanalitici, (Cavalli aveva sposato la nipote di Edoardo Weiss,
allievo di Freud e fondatore della psicoanalisi italiana). Il secondo esempio,
più aperto e popolare, ce lo offre lo scultore iperrealista John De Andrea con
i suoi nudi femminili cui è conferita una forte carica di erotismo.
Questo
nell’Arte figurativa. Un po’ più difficile è stato raggiungere la
legittimazione artistica del nudo nella tradizione fotografica, ove le immagini
di corpi senza veli raggiungono un realismo impossibile in pittura.
Se
nella società di tipo vittoriano, in virtù dall’attività sportiva e competitiva
dei contemporanei, lo standard normativo di rappresentazione del nudo è quello
maschile di un modello, esaltato e confermato nella sua virile muscolosità,
per il nudo femminile i fotografi sono costretti a trascendere il corpo
vivente della modella o dell’attrice di varietà, considerate alla stregua di
meretrici, e calare la figura femminile, bella e decorosa, nella
rappresentazione simbolica di un luogo o di una leggenda, ricorrendo ad ogni
sorta di stilizzazione ed astrazione per sublimare l’imbarazzante realismo che
rimane confinato nella sfera privata. Si trascorre così, da certe accattivanti
rappresentazioni religiose del nudo, ai dagherrotipi pruriginosi di fine ‘800;
dai fauni siciliani di von Gloden, agli ambigui atleti di Leni von Riefensahl;
dalla purezza formale dei nudi di Weston, alle delicate, evanescenti
giovinette di Hamilton, dai sensuali nudi maschili di Mappelthorpe, alle
modelle culturiste di Newton.
La
nostra di oggi è una società esibizionistica. La gestualità pudibonda delle
modelle, i vezzosi atteggiamenti volti a coprire alcune parti del corpo, sono
ormai stilemi del passato. Più la cultura dell’intrattenimento si nutre di
indiscrezioni, più il nudo è richiesto ed accettato nelle sue forme più
spontanee ed aperte. Quasi sempre, tuttavia, è solo l’erotismo ad improntare
ogni esibizione di tipo fotografico, senza la pretesa di aspirare alla dimensione
dell’Arte.
Con la
fotografia di nudo viviamo ancora in una contraddizione eccitante: da un lato
la fruizione del corpo svelato come trasgressione ad un divieto sacrale,
dall’altro come libera, naturale e sana aspirazione al ritorno ad uno stato
primitivo.
Il
problema è che, accanto ad un momento liberatorio, ce n’è sempre anche un altro
offensivo. E c’è modo di risolverlo? Soltanto nella sensibilità di ognuno di
noi.
Bressanone, febbraio 2002
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