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 G i o r g i o   R i g o n

    La natura morta è fenomeno assolutamente originale della mentalità europea fra Manierismo e Barocco. Come genere pittorico possiamo farne risalire la nascita intorno al 1596, quando Caravaggio dipinge un canestro di frutta affermando, per la prima volta, un interesse per il soggetto inanimato, non più periferico e complementare alla figura umana ma centrale ed esauriente.
    Un cinquantennio dopo, contestualmente alle esperienze dello stesso genere condotte dai pittori fiamminghi, nasce il termine “stilleven” che conoscerà una contigua traduzione con il tedesco “Stilleben” e l’inglese “still life” per indicare il carattere fermo dei soggetto rappresentato, in opposizione all’immagine della figura umana che doveva essere colta nella mutevolezza dell’espressione.
    La libera traduzione in francese (nature inanimée) e italiana (natura morta) conseguono ad un accademico giudizio negativo circa la perifericità del tema rispetto alla pittura religiosa e storica e alla minore abilità richiesta nel riprodurre soggetti che non esprimono carattere.
    Così, accompagnata sempre da valutazioni critiche riduttive, la natura morta diventa materia espressiva dei pittori minori, i quali però, nel corso del XIX secolo incontrano una inattesa fortuna presso l’emergente classe borghese. Questa nuova categoria di committenti, raramente colta e più sensibile all’aspetto decorativo dell’arte che non alla sua sostanza espressiva, indica come “status symbol” del momento il possesso di quadri che appaiano disimpegnati dalla tematica storica e da quella religiosa, entrambe imbarazzanti: la prima per le inevitabili connotazioni ideologiche, la seconda per l’incompatibilità con la matrice laica cui la nuova classe si informa.
    I grandi quadri di natura morta diventano così una caratteristica delle magioni borghesi assieme agli svariati oggetti di arredamento che costituiscono il gusto “Biedermeyer”. Nel frattempo nasceva la fotografia; all’inizio così lenta nel registrare i segni, le luci e le ombre, da dover privilegiare i soggetti inanimati quali appunto venivano offerti dal gusto estetico del momento.
    Inesauribile campo di studio della forma e del colore, la natura morta diventa principale materia dell’esercizio accademico, dando vita ad un’ iconografia ricchissima, sia per gli oggetti più disparati che concorrono ad arricchirla, sia per la disinvoltura con la quale questi vengono accostati. Quale studente non ha mai ricopiato frammenti di sculture estratti dalle gipsoteche degli istituti d’arte, dopo averli accostati a ortaggi, pampini e fogliame vario? Quanti autori di pittura e di fotografia non hanno contribuito, con questo genere di raffigurazioni, a rivitalizzare continuamente l’eterno bisticcio tra classicismo, manierismo e decadentismo?
    Tutti gli oggetti della natura morta sono lì, immobili, sempre pronti a farsi studiare dagli artisti del pennello e della fotocamera, e ad essere manipolati,ambientati, interpretati secondo le esigenze dei diversi momenti espressivi. Così i “Cubisti” li scompongono e li ricompongono con varie sfaccettature; gli “Espressionisti” li stilizzano esasperandone i contorni; i “Fauves” li trasformano in colore puro; i “Surrealisti” ne fanno materia onirica; i “Metafisici” come Morandi li stemperano in pura luce; i fotografi come Weston e Cavalli li sublimano per armonizzarli con lo spirito, altri li interpretano come “sculture”.





    Ma non tutti i pittori ed i fotografi hanno l’attitudine a cogliere la poesia della natura morta, soprattutto da quando Van Gogh e Cézanne, prendendo le distanze dal banale “trompe l’oeil”, hanno analizzato l’essenza pura delle forme e il vita lismo del colore, inteso come categoria estetica a sé stante, non più come impasto imitativo della natura. Oggi i pittori rivolgono scarso interesse alla natura morta, invischiati come sono nella moda del “post..., post..., post...” (c’è un “post” per ognuno dei movimenti delle avanguardie storiche); così il genere è rimasto esclusivamente palestra di esercizio dei fotografi. Essi, abbandonato il gusto barocco-decadente, hanno recepito i più recenti studi sulla psicologia della forma e si adoperano per valorizzare le linee armoniche delle cose, attraverso l’attenta selezione dei soggetti e la stilizzazione delle forme, ammaestrati soprattutto dagli stilemi pubblicitari.
    L’operazione “stilI life” dei nostri autori fotografi si articola, di norma, in tre momenti creativi:
  1. la scelta e la disposizione degli oggetti nello spazio: operazione che spesso trascende il semplice gusto compositivo per awicinare l’autore alla dimensione concettuale;
  2. la ripresa, preceduta da un attento studio delle luci e delle ombre: non si tratta semplicemente di un’operazione tecnica, poiché è proprio in questo momento operativo che interagiscono, con la volontà dell’autore, le numerose ascendenze formali di tutto il patrimonio iconografico di cui si è arricchita la storia dell’arte;
  3. la fase elaborativa: lavoro paziente di stampa, preceduto talora da una riflessione sui materiali e sui possibili interventi di natura fotochimica atti ad incrementare l’aura poetica concepita in fase progettuale.
Possiamo parlare delle nature morte in fotografia come d'un insieme di opere riepilogative di tante esperienze pittoriche, non a caso, infatti, ho indicato in precedenza l’attitudine degli oggetti inanimati a farsi analizzare e diventare materia poetica per i movimenti estetici sia classici che di avanguardia, I nostri fotografi si richiamano spesso ai modelli storicizzati ma ne creano anche di nuovi inventando i simboli di un genere raffinato che ci offre riposanti momenti contemplativi.
Giorgio Rigon
gi.rigon@virgilio.it

Bressanone, ottobre 1995